//Sorpresa! Lo shopping è cambiato

I cambiamenti radicali in atto nel modo di acquistare prodotti e servizi sono evidenti a chiunque, anche se non sempre sono chiare le vere dinamiche e le dimensioni del fenomeno.

Proviamo a fare un po’ d’ordine.

Le modalità di acquisto, basate su come un acquirente cerca un prodotto/servizio e su come effettivamente finisce per comprarlo, possono essere riassunte in quattro tipologie:

1.     E-shopping– Ricerca on line, acquisto on line. L’acquirente effettua l’intero percorso on line: si informa, reperisce le informazioni sui prodotti, valuta le alternative e compra. Normalmente il prodotto/servizio viene consegnato a casa, ma in questa tipologia rientra anche il “click and collect” (acquisto on line e ritiro in un punto fisico).

2.     R.O.P.O. – Ricerca off line, acquisto online. Il prodotto viene “trovato” e spesso provato in un negozio fisico, ma acquistato on line. Le ragioni possono essere varie: prezzo più basso, prodotto esaurito in negozio o indisponibile nelle caratteristiche specifiche richieste da cliente, come colore e taglia, fino alla necessità, o al piacere, di vedere e toccare qualcosa prima di procedere all’acquisto. E quelli che vedono un prodotto in negozio e lo comprano al volo, ancora all’interno del punto vendita, su Amazon dal cellulare? Siamo in pieno in questa categoria. Lo avete mai fatto? Io sì.

3.     R.O.B.O. – Ricerca online, acquisto offline. Scagli la prima pietra chi non ha passato del tempo a cercare qualcosa sul web e poi ha deciso di comprarlo in un negozio tradizionale. Anche in questo caso le ragioni possono essere diverse, dalla necessità di avere più informazioni al desiderio di ottenere una vera e propria consulenza. Naturalmente, anche tempi di consegna tropo lunghi proposti dall’e-commerce possono far scattare la decisione di rivolgersi a un negozio fisico, magari spendendo un po’ di più, specie in caso di ricorrenze o di acquisti comunque urgenti.

4.     Shopping tradizionale – È la modalità più antica e tuttora la più diffusa, anche se sempre meno “pura”. È infatti ormai improbabile non essere influenzati in qualche modo dal web anche in caso di acquisti di tipo più tradizionale. Ma quanto vale questa forma “antica” di shopping? Ancora moltissimo: nel mondo l’88% degli acquisti si fa ancora in un negozio fisico (in Italia il 95%).

Nelle quattro tipologie appena viste si riassume gran parte del customer journey di un acquirente. E’ piuttosto ovvio, esaminando le serie storiche, prevedere che gli acquisti online continueranno a crescere a tassi impressionanti (la previsione è di un +15% all’anno ancora per parecchi anni). Allora, qual è il futuro dei negozi?

Non è una risposta semplice, ovviamente, ma prima vale la pena di soffermarci su quello che succede in Italia.

Come abbiamo già visto, la quota dell’e-commerce nel nostro paese è decisamente inferiore alla media globale (5% contro 12%). I primi nell’e-commerce? I cinesi, che nel 2018 hanno speso oltre il 19% dei loro stipendi online, con una previsione di arrivare al 30% nel giro di pochi anni. C’è una spiegazione: in Cina i negozi di tipo occidentale e i centri commerciali sono arrivati molto tardi, quasi in contemporanea con l’e-commerce. Non si è quindi manifestato, a favore del retail classico, qual vantaggio storico che esiste in occidente.

Tornando a noi, quali sono le ragioni di questo ritardo? Cerchiamo di riassumerle:

–       Prima di tutto, una diffusione relativamente bassa di internet: poco più del 70% degli italiani ha accesso alla rete, contro percentuali che nel Nord Europa superano il 90%. Anche per questo, solo il 29% degli italiani ha acquistato online nel 2016, contro una media UE dell’84%).

–       Anche l’abitudine all’e-commerce rimane molto bassa rispetto agli altri paesi europei: solo il 34% degli italiani oggi acquista on line (solo sei paesi europei hanno percentuali inferiori), mentre in Francia sono il 67%, in Germania il 77%, in Olanda l’82%.

–       La bassa penetrazione dell’e-commerce è probabilmente da ricollegare, tra le altre ragioni, a una certa diffidenza verso l’utilizzo dei pagamenti telematici e a una diffusione ancora altissima del contante, che, si sa, in rete non si può usare.

Ma, allora, i nostri negozianti hanno ragione di lamentarsi e di essere molto preoccupati? Con numeri del genere? In realtà sì, anche se molti forse non lo sanno. Non si tratta infatti di dare la colpa ad Amazon (che da noi ancora pesa relativamente poco) per la crisi delle vendite, ma di iniziare a chiedersi cosa potrà succedere nel giro di qualche anno, quando i baby boomers saranno tutti in pensione e i millennials vedrano aumentare il loro peso sugli acquisti. Il botto, in altre parole, deve ancora arrivare (basti pensare a cosa succederebbe se la penetrazione dell’e-commerce si avvicinasse alla media europea), ma arriverà, anche se con qualche anno di ritardo. E allora?

Allora si tratterà di reinterpretare il retail sulla base di nuove abitudini, che se non possono essere contrastate (no, non possono), devono essere cavalcate.

Per immaginare come, servirebbe la vecchia, cara analisi dei punti di forza e di debolezza del dettaglio tradizionale rispetto all’e-commerce. La regola dice che sui punti di forza occorre fare leva, su quelli di debolezza lavorare perché diventino meno deboli, anche se non è lì, normalmente, che si può vincere la battaglia.

Dalle ricerche, le principali ragioni per cui un acquirente sceglie l’e-commerce sono comodità e risparmio di tempo. Difficile, se non impossibile far meglio di chi ti permette, stando a casa o in qualunque altro posto, di scegliere tra molte opzioni, confrontare i prezzi, leggere recensioni di altri acquirenti. Ma non può essere una buona ragione per gestire negozi disordinati, con prodotti poco accessibili e assortimenti all’osso. Facilitare la vita dello shopper e non costringerlo a sprecare il suo tempo dovrebbe essere ormai un mantra per i retailer tradizionali.

La vera battaglia per la sopravvivenza dei negozi si deve però combattere sul fronte della shopper experience: offrire all’acquirente un’esperienza piacevole, interessante, coinvolgente. Fargli toccare, provare un prodotto senza farlo sentire in colpa anche se alla fine non comprerà. E offrirgli supporto, consulenza, ascolto. Il successo di Ikea (dove nessuno ti sgrida se ti siedi su un divano o ti sdrai su un materasso) e degli Apple Store, in fondo, passa anche da questo.

Ma soprattutto, vedere il commercio tradizionale come antagonista a quello on line è ormai largamente antistorico. Le due modalità continueranno a unirsi e a fondersi, saranno semplicemente due opzioni a disposizione dell’acquirente. Qualcuno lo ha già capito, persino aprendo negozi (guideshops) che non vendono niente ma sono delle (belle) vetrine per i prodotti venduti online (come nel caso di Bobobos, insegna americana dell’abbigliamento). Oppure offrendo, senza imbarazzo, ma anzi come servizio aggiuntivo al cliente, l’opzione on line per acquistare quello che in negozio non c’è (evitando il terribile autogol del prezzo maggiorato nel negozio fisico rispetto alla piattaforma e-commerce della stessa insegna, magari con la giustificazione “Ma noi qua abbiamo costi più alti”, come mi sentii dire in una catena di elettronica poi finita, guarda caso, in acque agitate). Molti, troppi, credono invece di poter resistere senza cambiare nulla, che è molto simile a cercare di fermare l’acqua con le mani.

Per avere un’idea di come potrà manifestarsi una strategia omnichannel, in altre oparole l’integrazione tra on e offline, vale la pena leggere un recente articolo del Sole 24 Ore sui progetti del colosso cinese (sì, ancora la Cina) Alibaba, che con i suoi 800 milioni di utenti rappresenta un riferimento importante, e molto meno lontano di quanto si possa credere.

https://www.ilsole24ore.com/art/management/2018-10-09/alibaba-ha-finalmente-trovato-chiave-integrare-online-e-offline-130556.shtml?uuid=AElo7lJG

 

Articolo a cura di Marco Bona

2019-01-23T09:21:43+00:00 By |0 Commenti